FARE IL CAMORRISTA NON CONVIENE: Pagina di diario di Tilla, figlia di un camorrista

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Caro diario,
è da quando sono nata che vivo qui a Napoli. Ricordo che mia madre mi raccontava che Napoli era la città del sole, io ci credevo perché, quasi tutte le mattine, il sole splendeva ed illuminava quel suo viso angelico.
Vivevo in una casa grande, anche fin troppo per ospitare me e mia madre, sole. Definivo principesca ogni stanza; l’unica cosa che non amavo, erano le bianche pareti decorate solo da grandi quadri dei quali, per me, era difficile definirne l’immagine data la tenera età.
Nel grande giardino che circondava la casa non crescevano mai fiori, avrei voluto tante volte avere tra le mani un fiore e sentirne l’odore!
Quando andavo a scuola, m’accorgevo che non ero ben voluta, neppure dai bambini. Non avendo amici, mi sentivo ancor più sola quando, nel cortile di quella scuola a me così tanto estranea poiché non riuscivo a condividerne i momenti e le attività, si organizzavano girotondi e si cantavano all’unisono canzoncine.
Avevo, ogni giorno di più, la sensazione che fossi emarginata da tutti, ma non ne comprendevo il vero motivo. Un velo di tristezza ricopriva il mio viso durante le feste natalizie, non perché non ricevessi regali, anzi! Mia madre non mi ha mai privato di nulla, mi trattava come una principessa! Ricevevo giocattoli e regali anche quando non era Natale né il mio compleanno.
Vedevo di rado mio padre.
Dai racconti di mia madre, era fuori per lavoro, ma un giorno, sarebbe ritornato. Non ne sentivo molto la mancanza perché avevo avuto poche volte l’occasione di condividere una giornata con lui. Tra i tanti regali ricevuti, quello a me più caro era un abitino di velluto rosso, morbido al tocco.
Una cosa però mi turbò: Il cielo cominciava a diventare grigio. Lo stupore e la meraviglia furono strappate improvvisamente dal mio viso da un colpo di pistola: pensavo fosse un gioco! Invece no. Due uomini con atteggiamento spavaldo estrassero una pistola che indirizzarono al cuore di mia madre. Il suo sguardo, per un’ultima volta s’incrociò con il mio, ma il mio pensare da bambina non mi permise di capire che quella era proprio l’ultima, di volta.
E come quando il sole si ritira e lascia spazio alle nuvole, il mio sorriso ingenuo lasciò spazio ad un pianto soffocato dal silenzio. Un silenzio che comunicava parole nuove, parole mai dette.
Solo allora capii che ero figlia di un camorrista. Mio padre non è mai più ritornato ed ho saputo della sua morte mentre ascoltavo le notizie alla TV. Era descritto con parole che a solo udirle facevano ribrezzo, ma fu proprio dopo averle udite che compresi tutto.
Mia madre non mi aveva detto nulla per proteggermi, ma ciò che ancora mi chiedo è come si sia potuta innamorare di un uomo che le aveva dato tutto fuorché amore. Adesso resta solo il ricordo, ma nulla potrà cancellare l’immagine di un’infanzia trascorsa tra ricchezze materiali e povertà di valori. La mia unica colpa era quella di essere figlia di un uomo che aveva sbagliato strada. Un camorrista spietato che  non aveva saputo cogliere i valori fondamentali della vita, senza rispetto ed amore, condizionando la nostra vita, relegata in un castello… destinato a crollare.
Adesso resta di me una donna che cerca di cancellare il suo passato ma che, per la gente, resterà per sempre la figlia di un camorrista. Si, forse sono io l’unica vittima di questa storia, ma non può finir così. Perché la camorra uccide non solo con i suoi gesti, ma anche con i suoi silenzi, sottrae la vita, toglie l’aria, imprime un marchio, indelebile.
No, fare il camorrista non conviene.

Tua Tilla

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